Benvenuti in Italia, la proiezione del film ad Arezzo per la Giornata del Migrante

Il film documentario del regista Zakaria Mohamed Ali in programma il 18 dicembre

Lucrezia Lombardo
05/12/2013
Attualità
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Anche in quest’occasione, il cinema – e,nello specifico, il documentarismo- si rivela essere uno degli strumenti più adatti per guardare da vicino, e sotto una prospettiva nuova, un fenomeno sociale di grande impatto come l’immigrazione. Analizzato dal punto di vista di chi è fuggito dalla propria terra d’origine, in cerca di una vita diversa, il fenomeno dell’immigrazione diventa anche l’occasione giusta per suscitare una riflessione sull’Italia contemporanea. Il documentario “Benevenuti in Italia”, del regista Zakaria Mohamed Ali, verrà proiettato il 18 Dicembre, in occasione della “Giornata del migrante 2013”. L’iniziativa nasce dalla collaborazione di Arci-Arezzo, con l’Archivio Memorie Migranti e vanta del Patrocino del Comune. Il documentario è articolato in cinque storie di vita quotidiana, ciascuna realizzata da un differente regista. Tutti e cinque i filmmaker sono giovani  immigrati che hanno alle spalle storie di separazioni, di fuga, di ricerca di una vita migliore. Dopo aver seguito un percorso di formazione presso l’Archivio Memorie Migranti, i cinque registi coinvolti nel progetto hanno girato del lungometraggi, i cui protagonisti sono giovani che, da soli, nonostante le difficoltà a cui la vita li mette davanti, riescono a rialzarsi dalla sofferenza grazie a quella spinta profonda che lotta per dare la luce ad una nuova esistenza. Come a dimostrazione del fatto che i vissuti individuali, benché di profondo dolore, non vanno mai persi ma, anzi, aprono la porta a nuovi orizzonti in cui la prospettiva che si ha sulla realtà e sullo stato di cose può mutare. Aluk Amiri, uno dei cinque registi, giovane afghano, racconta la storia di un ragazzo –suo alter ego- che trascorre il giorno del suo diciottesimo compleanno in un appartamento messo a disposizione dal Comune di Venezia per i rifugiati politici. Mohamed Ali, invece, ci narra la storia di un campione di calcio somalo che è costretto a viaggiare da Milano a Roma senza biglietto, per raggiungere la nazionale del suo paese. Piccoli spezzati della “vita di un migrante” divengono quindi trame per narrare delle vicende in cui ogni particolare conduce all’universale e le storie individuali diventano l’occasione per una riflessione che ci coinvolge tutti. Hevi Dilara è una donna, una giovane curda, che racconta la storia di spaesamento e sofferenza di una famiglia che si trova “scaraventata” in un centro di prima accoglienza a Ercolano. Le emozioni di persone che, per cause di forza maggiore, sono sradicate dal loro paese, dai loro affetti, dai loro ruoli sociali per ritrovarsi, d’un tratto, senza niente, se non con le loro stesse vite tra le mani, sono emozioni che toccano l’animo di ciascuno di noi. Lo spettatore è quindi catapultato nel bel mezzo di trame che non raccontano vicende lontane dalla vita di tutti i giorni, bensì narrano storie di quotidiana sopravvivenza, i cui protagonisti sono quelle persone che genericamente definiamo “immigrati” e che la mattina siedono sul tram accanto a noi.  E ancora, il burkinabè Hamed Dera riprende le scene che si svolgevano quotidianamente nella pensione “Chez Margherita” di Napoli, uno dei punti di ritrovo della sua comunità, prima della chiusura. Infine, la storia più drammatica, quella girata dal filmmaker e rifugiato politico etiope Dagmawi Yimer , che rievoca la vicenda del mediatore culturale e attore senegalese Mohamed Ba che, in una giornata di sole all’apparenza invitante e uguale a tante altre, viene accoltellato da uno sconosciuto davanti alla fermata dell’autobus, perché “la sua pelle era di un colore diverso dal nostro”. La brutalità e il dolore delle esperienze vissute dai registi –così come quelle che hanno conosciuto gran parte dei migranti- si fondono così con un lirismo delicato che tenta di oltrepassare la ruvida realtà, in cerca di una nuova speranza. Perché è la speranza che ha dato la forza a questi giovani di partire e di cercarsi una vita nuova, in cui ci fosse, per la prima volta, spazio anche per tutto quello che non ha a che fare col sopruso e con la violenza. Tuttavia, ogni viaggio è una scommessa. E mentre c’è chi trova fortuna, c’è anche chi, arrivato in Italia, trova la morte, per mano di quella stessa “barbarie” da cui era fuggito,  cercando riparo. Ma il minimo comun denominatore di tutte queste storie è la dignità profonda che ciascuna di esse incarna: non è lo sconforto che ha il sopravvento, ma l’istinto di sopravvivenza e la voglia di costruire, per sé, un posto nel mondo in cui poter vivere davvero. Esistenze che le vicende della vita avevano cercato di mutilare, ma che, nonostante la fatica, hanno saputo trovare il coraggio di rialzarsi. E questo è il grande messaggio di speranza che queste storie devono trasmetterci, specie nel momento di difficoltà storiche, culturali, economiche e politiche che l’ Italia sta vivendo. La domanda che viene da porsi, quindi, alla luce di storie simili è : “Se sono riusciti a rialzarsi da tanto dolore questi giovani ragazzi che hanno vissuto le peggiori atrocità, frutto dell’ingiustizia umana, perché  non dobbiamo trovare anche noi questo coraggio, per crearci un nuovo inizio?”. Questi giovani, con le loro storie di coraggio –un coraggio che affonda le proprie radici non nell’aridità di cuore, ma al contrario nel dolore e nella fragilità- , sono un esempio per il nostro paese e sono una speranza. Sono la speranza che le cose possono sempre cambiare, se solo si ha la volontà e la fiducia di potercela ancora fare.

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